Il linguaggio dei segni rivela una proprietà cognitiva universale

 

 

LORENZO L. BORGIA & GIOVANNA REZZONI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 02 maggio 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Una parte non trascurabile di neuroscienziati e ricercatori nel campo delle discipline psicologiche e della comunicazione, ritiene che esistano facoltà psichiche e qualità cognitive legate al conferimento e all’estrazione di significato, che precedono la lingua verbale e possono prescindere da essa. Se da un canto una tale convinzione può far pensare all’antica e ingenua separazione fra intelligenza e parola, dall’altro rispecchia le conoscenze più avanzate che considerano ciascuna delle due abilità come la risultante di numerosi processi in gran parte indipendenti e combinabili fra loro in modo diverso.

D’altra parte, se è vero che la nostra precoce acquisizione della lingua madre e l’abitudine a rendere col pensiero verbale e la comunicazione ogni atto intelligente crea un’indissolubile fusione fra intelletto e parola, è pur vero che esistono innumerevoli circostanze in cui le due facoltà sono distinte. Si pensi, quale esempio di processo intelligente che prescinde dal linguaggio, a quando in una circostanza della vita domestica vediamo oggetti disposti in equilibrio precario e interveniamo per evitare il peggio; e quale esempio di linguaggio che prescinde da una elaborazione intellettiva, ad un saluto come atto riflesso di risposta ad un passante, mentre siamo assorti nei nostri pensieri. Altri due esempi tratti dalla nostra vita quotidiana possono essere, da un canto, l’esecuzione di una manovra intelligente alla guida dell’auto per sbrogliare una complessa situazione di traffico, dall’altro, la pletora di parole e locuzioni di circostanza che pronunciamo automaticamente per associazione, quali: “Buongiorno”, “Buonasera”, “Bene”, “Scusi”, “Grazie”, “Prego”, “Ottimo”, “Okay”, “A dopo”, “A presto”, “Come al solito!”, “E ti pareva?”, “Tutto a posto”. Per non contare le imprecazioni e l’automatica rimemorazione di versi poetici, di canzoni o frasette all’ordine del giorno sui social network.

Ma, se è evidente che processi di elaborazione cognitiva ed esecuzioni verbali possono essere indipendenti, non è però tanto facile separare la cognizione dalla lingua del pensiero e della comunicazione verbale, per analizzarla scientificamente.

Nella linguistica evolutiva, come osserva Jerome Bruner[1], la precedenza della cognizione sulla modalità espressiva è assunta come una certezza: “La funzione precede la forma”, si è soliti dire. Durante lo sviluppo delle abilità verbali da parte del bambino, le “intezioni prelinguistiche del richiedere e dell’indicare sembrano guidare la ricerca e accelerare il processo di acquisizione della padronanza di forme linguistiche appropriate”[2].

Alla base vi è il rapporto fra il significato e la sua codifica, sia per la sua mentalizzazione nel pensiero, che per la sua comprensione e produzione nei due versanti della comunicazione. E la codifica del significato nella cultura umana è precocemente e strettamente associata ai simboli fonetici e grafici della lingua, ai quali si aggiungono quelli dell’aritmetica, unicamente per esprimere quantità.

La ricerca delle basi cognitive del senso e del significato costituisce una delle maggiori sfide nel campo delle scienze della mente. Possiamo considerare in questo insieme di indagini tutti gli studi che esplorano quella struttura profonda comune a tutte le lingue postulata da Noam Chomsky, e tutti i progetti che studiano il significato legato alla lingua in una forma che vada oltre il mero valore semantico di parole e frasi ed attenga a categorie concettuali della cognizione umana.

Una straordinaria possibilità per indagare le “funzioni che precedono la forma verbale”, la forniscono le persone che fanno uso di un linguaggio di segni.

Una questione cruciale in questo genere di studi consiste nel comprendere quali elementi delle singole lingue prodotte dalla cultura umana può essere universalmente accessibile. I linguaggi dei segni offrono una prospettiva privilegiata in questo ambito, perché la modalità visiva può aiutare a realizzare e rilevare proprietà che possono essere presenti, ma non svelate, nelle lingue parlate.

Brent Strickland, con Carlo Geraci ed altri, ha condotto uno studio dal quale è risultato che aspetti di “grana fine” dei significati dei verbi, visibilmente emergono attraverso differenti sistemi di linguaggi dei segni non correlati fra loro, usando identici sistemi di mappatura del rapporto fra significato e forma visiva. I ricercatori hanno anche rilevato che, persone non in grado di usare un linguaggio di segni e totalmente prive di conoscenze e precedenti esperienze di tali semìe sostitutive[3], erano in grado di intuire questi significati da segni totalmente sconosciuti.

Tali risultati indicano che, tanto coloro che usano abitualmente un linguaggio dei segni quanto coloro che ignorano del tutto questo genere di codici gestuali, condividono nozioni universalmente accessibili di significati cognitivi, così come una tendenza universale a definire rapporti fra questi significati e forme visive (Strickland B, et al., Event representations constrain the structure of language: Sign language as a window into universally accessible linguistic biases. Proceedings of the National Academy of Sciences USA – Epub ahead of print doi:10.1073/pnas.1423080112, 2015).

La provenienza degli autori dello studio è la seguente: Institut Jean Nicod, CNRS, Paris (Francia) Laboratories of Cognitive Sciences and Psychology of Perception, CNRS, Paris (Francia); Department of Linguistics University of Amsterdam, Amsterdam (Paesi Bassi); Department of Linguistics, Bogaziçi University, Istanbul (Turchia).

Un’antica tradizione teorica risalente ad Aristotele, che ha fornito a linguisti e filosofi del linguaggio una base razionale per distinguere fra due categorie di senso paradigmatiche di base nella cognizione verbale, è quella che distingue i verbi in telici ed atelici.

I verbi telici contengono la codifica concettuale di un’azione che porta ad un fine definito nel tempo e terminale in chiave logica, anche se non sempre e necessariamente irreversibile. Esempi di questa categoria sono donare, vendere, comprare, decidere e morire.

I verbi atelici, al contrario, non implicano di per sé la codifica logica del compimento con il raggiungimento di un obiettivo terminale individuabile nel tempo, ossia non denotano azioni configurabili come atti conclusi. A rigor di logica, gli atti designati da questi verbi potrebbero proseguire indefinitamente[4]. Esempi di verbi atelici sono discutere, passeggiare, considerare, riflettere e vivere.

Lo studio di Strickland dimostra che i linguaggi dei segni codificano la qualità telica o telicità in una maniera apparentemente universale, e che perfino coloro che non sono in grado di usare un codice gestuale per la comunicazione e non hanno mai visto i segni di questi codici, riescono a comprendere il significato di queste rappresentazioni visive.

Nella serie degli esperimenti che vanno da 1 a 5, i volontari parlanti la lingua inglese e non addestrati ad alcun linguaggio di segni erano in grado di distinguere accuratamente fra verbi telici, quali decidere, e verbi atelici, quali pensare, in linguaggi dei segni fra loro storicamente non collegati, quali il Linguaggio dei Segni italiano, il Linguaggio dei Segni dei Paesi Bassi e il Linguaggio dei Segni della Turchia. Questi risultati non erano dovuti all’inferenza da parte dei partecipanti che il segno meramente imitasse l’azione in questione.

Nell’esperimento numero 6, i ricercatori hanno adoperato “pseudosegni” ovvero rappresentazioni gestuali non codificate, ma caratterizzate da elementi comuni a quelle dei segni dei codici, per dimostrare che la presenza di un rilevante termine visivo alla fine del gesto era sufficiente ad evocare l’interpretazione telica, mentre movimenti ripetuti senza una terminazione rilevante, sollecitavano un’interpretazione atelica.

Gli esperimenti dal numero 7 al numero 10 hanno confermato che queste indicazioni visive erano usate da tutti i linguaggi dei segni studiati dai ricercatori.

Concludendo, l’insieme dei dati emersi da questo studio indica che persone addestrate all’uso di linguaggi dei segni e persone che ignorano del tutto tali semìe sostitutive condividono nozioni apparentemente universali di telicità, così come tendenze universali di accoppiamento (mapping) fra concetti telici e forma visiva del gesto.

 

Gli autori della nota invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia & Giovanna Rezzoni

BM&L-02 maggio 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Professore di psicologia della New York University, è fra i pochi psicologi di area cognitiva il cui lavoro ha suscitato l’interesse di Gerald Edelman. Bruner ha svolto periodicamente cicli di lezioni e conferenze anche in Italia.

[2] Jerome Bruner, La ricerca del significato, p. 92, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

[3] Definizione introdotta in Italia da Virginia Volterra per indicare tutti quei sistemi di codici non verbali in grado di sostituire una lingua verbale.

[4] Naturalmente, nella realtà della comunicazione verbale, la loro dimensione temporale è circostanziata e definita dal valore di significato espresso dal contesto o da altre specifiche parole o frasi.